Bitte Lebn
Ci sono parole (e immagini)
parlanti, che dischiudono, che bussano al cuore, alla testa, alla pancia. Ci
sono parole (e immagini) feticcio, che rimandano solamente a se stesse, che non
“stanno per qualcos’altro”, il loro potere metaforico è, infatti, annientato . Queste
parole sono “maggioranza” e governano a mani basse; e non è governo àristos, dei migliori – come la media o
la moda non sono l’espressione di punta, trascendenti e illuminanti di un
determinato momento storico.
Queste parole feticcio
rassicurano e proteggono. Non sono parole necessariamente rozze, possono essere
sofisticate (solitamente leziose), e costruire un gioco di specchi. Chi se ne
accorge s’affretta a cercare lo specchio più bello. Ma non lo trova. Lo sguardo
dell'Altro, per l'Altro, sfugge a parole, immagini, dipinti e manufatti – e
meno male.
Comunque, dopo una sbornia
collettiva che dura da più di 30 anni (1980-2013) – che chiamerei la stagione
narcisistica dell’arzigogolata felicità istantanea (da perseguire a tutti i
costi) – questo nuovo anno potrebbe
aprire una nuova epoca, vissuta nel nome della "semplicità", a
partire dalle parole.
Per questo "Bitte Lebn"
mi convince più di altri graffiti sui muri di Berlino – citazioni di citazioni
di citazioni... Post-post-post-moderno… Un’estetica del simbolismo… Simulacri, in definitiva.
Seguendo il filo del discorso,
questo post è esso stesso uno sbrodolamento e potrebbe essere sostituito, più
semplicemente, da un: “Bonjour Tristesse. Bitte Lebn”.
Forse si potrebbe dire: “Vivi la
vita per quella che è. Raccontala con semplicità”.
Credo che il graffiti sia un
invito a scegliere; ma visto che siamo a Berlino, è opportuno – o comunque può
aver senso, almeno per me – cercare un significato legato a quel luogo. Il muro
impone qualcosa. Il muro non può essere ridotto a se stessi. A meno che non si
abbia un rapporto col mondo marcatamente onanistico.
Una delle citazioni più comuni
per chi si addentra in una città (filosofo, sociologo, antropologo, architetto
etc.) è quella di Italo Calvino nelle Le città invisibili: “D’una città non
godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua
domanda”.
È, per me, sorprendente – ma
comprensibile al tempo dei tweets – che
la maggioranza degli intellettuali se ne infischi di cosa sta prima e dopo
quella frase…
-
Io non ho né
desideri né paure, – dichiarò il Kan, – e i miei sogni sono composti o dalla
mente o dal caso.
-
Anche le
città credono di essere opera della mente o del caso, ma né l’una né l’altro
bastano a tener su le loro mura. D'una città non
godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua
domanda.
-
O la domanda che ti pone obbligandoti a
rispondere, come Tebe per la
bocca della Sfinge.
In Inglese
-
I have neither desires nor fears, the Khan declared, and my dreams are
composed either by my mind or by chance.
-
Cities also believe they are the work of the mind or of chance, but
neither the one nor the other suffices to hold up their walls. You take delight
not in a city’s seven or seventy wonders, but in the answer it gives to a
question of yours. Or the question it
asks you, forcing you to answer, like Thebes through the mouth of the
Sphinx.
Più prosaicamente, la città (la
vita) non è una mera proiezione del Sé. Tu hai le tue domande, ma anche la
città ha le sue – è Edipo a indovinare l’enigma
della Sfinge, interessante ma ci porterebbe altrove. E alle domande di Berlino,
col suo Muro, non risponderei con l’ideologia (il già pensato) del ‘900, e
neppure con la “sensologia” odierna. Questa, secondo il filosofo Mario
Perniola, è una modalità di sentire caratterizzata da un’esperienza anonima e
reificata: il “già sentito”.
“Ai nostri nonni gli oggetti, le persone, gli avvenimenti si
presentavano ancora come qualcosa da
sentire, di cui avevano un’esperienza interiore, di cui si rallegravano o si
dolevano, a cui partecipavano sensorialmente, emotivamente, spiritualmente,
oppure al contrario che nemmeno avvertivano, o che si rifiutavano di avvertire.
A noi invece gli oggetti, le persone, gli avvenimenti si presentano come
qualcosa di già sentito, che viene ad occuparci con una tonalità sensoriale,
emotiva, spirituale già determinata. Il discrimine non sta affatto tra la
partecipazione emotiva e l’indifferenza, bensì tra ciò che è da sentire e ciò che
è già sentito. Ciò che è da sentire può essere sentito o non sentito; ma ciò
che è già sentito può essere solo ricalcato… Il sentire ha acquistato una
dimensione anonima, impersonale, socializzata, che chiede di essere ricalcata” (Perniola 1991, 4).
La sensologia, sequestrando l’esperienza
dell’essere umano, lo conduce a un falso sentire ben più difficile da
smascherare rispetto alla falsa coscienza dell’ideologia; questo tipo di esperienza,
infatti, non pretende di essere portatrice di alcuna verità, ma si costituisce
come “nuda effettualità del già sentito”: il sentire, infatti, è difficile da
giudicare ed essere oggetto di critica come lo sono, invece, le concezioni del
mondo. Sempre secondo lo studioso, persino la percezione del proprio corpo “oggetto di un’attenzione cosmetica,
terapeutica ed edonistica senza precedenti” — l’esperienza meno mediata e più intima — assume le caratteristiche del
già sentito. Per Perniola non si tratta propriamente di una “cultura del
narcisismo” (Lasch 1981) ma di un processo ben più inquietante, lo “specularismo”,
che conduce a una figura d’identità singolare:
l’uomo specchio.
“Non solo l’immagine di noi stessi non ci appartiene affatto, ma
perfino il modo in cui la sentiamo ci sembra in qualche modo estraneo e per così
dire prefissato. Se per il narcisista il mondo è uno specchio in cui egli
guarda se stesso, l’esperienza del già sentito sembra connessa col diventare lo
specchio in cui il mondo si guarda. Perciò forse non tanto di narcisismo è
opportuno parlare, quanto di uno specularismo che riflette esperienze già
prefigurate” (Perniola 1991, 10).
Ripartire con semplicità non è
semplice, ci prova lo scrittore norvegese Erlend Loe in Naïf.Super. Ma di questo parlerò un'altra volta.
Mi dilungo, lo so. Sono
italiano... Ma c'è pure la retorica, il feticcio della brevità (di marca
anglosassone), che non è migliore, è solo più breve. E in un mondo di sms, tweets etc. non è difficile capire perché
la brevità è tanto apprezzata. Vero?
-
PERNIOLA, M. (1991) Del sentire. Torino:
Einaudi.
- LASCH,
C. (1979) The Culture of Narcissism.
New York: Norton. Trad. it. La cultura del narcisismo. Milano:
Bompiani 1981.
- CALVINO, I. (1972) Le città invisibili. Torino: Einaudi. Eng. Trans. Invisible
cities. New York: Harcourt
Brace Jovanovich
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